Scuola e Istruzione: leggi troppo complicate
Segnaliamo l’articolo pubblicato su Il Post di Claudio Giunta, docente di Letteratura italiana all’Università di Trento, specialista di letteratura medievale.
Nell’articolo il professore si interroga su larga parte delle leggi italiane, specie quelle che riguardano la scuola a dir poco incomprensibili.
” Nella legge n.79 del 29 giugno 2022, c’è un periodo di centosedici parole, ripieno di termini astratti e di reboanti principi…”.
Entrato a sei anni nel sistema dell’istruzione italiano, non ne sono più uscito. Del resto, perché avrei dovuto fare una sciocchezza simile? Prima mi hanno pagato gli studi, poi hanno cominciato a pagarmi per far studiare gli altri. Tra qualche anno sarò pagato per averli fatti studiare. Una vita lineare, coerente.
L’esperienza di decenni dovrebbe avermi messo in condizione di conoscere ogni ingranaggio della macchina, invece non è così, e in particolare questa pluridecennale esperienza non è bastata a farmi capire come si diventa insegnanti. Le ragioni principali del mio fallimento sono tre, e le elenco provando anche a indicare di seguito i possibili rimedi.
La prima ragione è che non riesco a capire buona parte delle leggi italiane, meno che mai quelle che riguardano la scuola e l’istruzione. Le leggi, i regolamenti, le ordinanze ministeriali. Questo per esempio è un brano del decreto legge n.36 del 30 aprile 2022 che mira, tra le altre cose, a ‘mettere ordine’ nel reclutamento degli insegnanti:
La formazione iniziale dei docenti è progettata e realizzata in coordinamento con il Piano nazionale di formazione di cui all’articolo 1, comma 124, della legge 13 luglio 2015, n. 107, nonché con la formazione continua incentivata di cui all’articolo 16 -ter, e consta di un percorso universitario e accademico specifico finalizzato all’acquisizione di elevate competenze linguistiche e digitali, nonché di conoscenze e competenze teoriche e pratiche inerenti allo sviluppo e alla valorizzazione della professione del docente negli ambiti delle metodologie e tecnologie didattiche applicate alle discipline di riferimento e delle discipline volte a costruire una scuola di qualità e improntata ai principi dell’inclusione e dell’eguaglianza, con particolare attenzione al benessere psicofisico degli allievi con disabilità.
Quando leggo questo periodo di centosedici parole, ripieno di parole astratte e di reboanti princìpi (l’inclusione, l’uguaglianza, le competenze e le conoscenze eccetera), la mia mente si perde, vaga, si appiglia ai pochi termini concreti, traducibili in immagini mentali: da quelle centosedici parole deduco soltanto che gli insegnanti futuri dovranno essere in grado di provvedere soprattutto agli studenti disabili.
Non è che io sia orgoglioso di questa mia difficoltà a capire; ma constato che nelle mie stesse condizioni sono moltissimi miei colleghi, tra scuola e università, e anche gli eccellenti responsabili amministrativi dell’ateneo nel quale insegno. «Abbiamo mandato un quesito al ministero», si sente dire periodicamente, bussando agli uffici. Ma il parere raramente illumina; più spesso fa una fioca luce soltanto su un pezzetto della questione, lasciando il grosso nelle tenebre, cioè abbandonato all’arbitrio dell’interprete.
Rimedi? Nessuno. Scrivono così, gli hanno insegnato a scrivere così, parte del loro carisma riposa su quest’uso atroce dell’italiano: pensare che cambino, che imparino a spezzare i periodi, a usare meno parole astratte e più parole concrete, non è realistico.
La seconda ragione per cui non so come si diventa insegnanti è che le regole per diventare insegnanti cambiano quasi a ogni governo. Nel giro di pochi anni abbiamo avuto le SSIS (Scuole di Specializzazione all’Insegnamento Secondario), poi il TFA (Tirocinio Formativo Attivo), e in parallelo al TFA il ‘canale preferenziale’ dei PAS (Percorsi Abilitanti Speciali), eccetera. E data tanta mobile varietà, date le tante occasioni, le troppe eccezioni, si sono moltiplicati anche i ricorsi, con scialo di carta bollata, notule, e dilapidazione di soldi e tempo.
Rimedi? Nessuno. Certo, si potrebbero tentare strade ancora intentate, per esempio liberalizzare. Fare ogni anno dei concorsi nazionali rigorosi, scritti e orali, senza altro requisito che non sia una laurea, e far lavorare subito i vincitori (anche per abbassare l’età media del corpo insegnante, che è altissima), con la riserva di verifiche serie durante la carriera, in modo che chi ha sbagliato professione abbia il tempo di trovarsene un’altra. Ma questo metterebbe fuori gioco una marea di enti, agenzie, formatori, esperti di didattica dispensatori di certificati, e alla fine le stesse università con i loro ‘percorsi abilitanti’, i loro crediti per l’insegnamento, i loro voti gonfiati, i titoli distribuiti a pioggia in cambio di quel piccolo obolo che sono le tasse universitarie. E perché mai dovremmo rinunciare a questo potere e a questo denaro?
Ora, come accennavo, la legge 79 prova un’altra volta a ‘mettere ordine’, e veniamo alla terza ragione per cui sulla formazione e il reclutamento degli insegnanti, almeno per me, cade l’ombra.
A mio parere (e a parere di tanti altri) non è una buona legge, tra l’altro perché asseconda una deriva ormai più che decennale, una deriva che – nonostante le buone intenzioni e le dichiarazioni in contrario – scredita le discipline curricolari e accredita, sopravvalutandone l’importanza, le discipline psico-pedagogiche: come qualcuno ha detto, si finisce per moltiplicare le ore di ‘teoria del nuoto’, e si entra pochissimo in acqua, mentre la strada da percorrere sarebbe quella oppposta.
Ma non importa perché non è questo, adesso, il problema più urgente. Il problema urgente è che la legge c’è ma, a quasi un anno dalla promulgazione, mancano i decreti attuativi che dovrebbero tradurre in pratica ciò che la legge prescrive, e anzitutto dire alle università come organizzare i percorsi abilitanti, come calibrare l’offerta didattica nelle discipline psico-pedagogiche, come attivare i tirocini in classe, come organizzare e valutare le prove finali che, una volta superate, daranno presumibilmente accesso al ‘periodo di prova’ di insegnamento nelle scuole. Inoltre, non è chiaro (almeno a me) qual è il destino di quegli studenti universitari che hanno già conseguito i 24 ‘crediti per l’insegnamento’ richiesti dal decreto del 2017: dovranno integrarli con altri crediti, con conseguente esborso di denaro, nelle università o in altri ‘enti accreditanti’? Ci sarà una sanatoria? E siamo sicuri che le discipline nelle quali questi studenti hanno conseguito crediti saranno ancora quelle abilitanti per l’insegnamento? Ci sarà un altro ‘percorso abilitante speciale’? Eccetera.
Ora, siamo a maggio. Se anche le università riuscissero ad attivare la nuova formazione per l’inizio del prossimo anno accademico (e non ci riusciranno), molti iscritti al secondo anno delle magistrali non potranno completare la loro formazione prima di laurearsi. Nelle università non si sa bene che cosa fare. Questi studenti – molti dei quali sarebbero ottimi insegnanti – non sanno che cosa fare. Ci troviamo tutti, come si legge nei siti delle università, «nelle more dell’attuazione della legge 79/2022 di riforma della formazione iniziale abilitante e del reclutamento degli insegnanti». Ma in queste more – cioè in questo limbo, in questo spazio d’indecisione e d’inazione – si sprecano sconciamente mesi, anni, e l’intelligenza e l’entusiasmo di persone giovani che potrebbero migliorare davvero il sistema dell’istruzione italiano.