L’epopea delle 150 ore
“All’inizio tutto è sperimentale, si fondono il desiderio di riscatto personale e la necessità di studiare per contribuire alle rivendicazioni collettive. Le classi si riempiono, prima di operai, e poi di disoccupati e di casalinghe, moltissimi sono i militanti. I corsi si moltiplicano, nella scuola pubblica, nelle università. Per molte donne le 150 ore diventano l’occasione per organizzare gruppi d’autocoscienza, per avvicinarsi a testi e pratiche femministe“.
Imiei si sono sposati nel 1972, io sono nato nel 1975. Gli anni in mezzo, ma anche quelli successivi alla mia nascita, li hanno passati in gran parte a fare riunioni e assemblee. Se uno era con noi, l’altra tornava sempre tardi perché finiva tardi di stendere un comunicato, eleggere qualcuno, riaccompagnare un collega. Negli anni Settanta e buona parte degli Ottanta per molti bambini era così, non eravamo un’eccezione. Mia madre faceva l’insegnante, mio padre lavorava in un’azienda con mille dipendenti: entrato come operaio specializzato, poi quadro, poi dirigente. Si erano laureati, i primi della famiglia, grazie a un contratto da studente lavoratore e a una serie di borse di studio. A cena parlavano di sindacato, formazione, tavoli, collegi. A 10 anni io e mia sorella sapevamo il significato di parole come contrattazione, vertenza, rappresentanza. Tra le espressioni più ricorrenti del nostro lessico famigliare c’erano “150 ore”, una formula che metteva insieme i loro due mondi: la fabbrica e la scuola.
Del resto, le 150 ore sono poco più grandi di me. I primi corsi sarebbero dovuti partire nel settembre 1973, cinquant’anni fa, anche se poi, per l’inerzia del ministero dell’Istruzione, iniziarono cinque mesi più tardi, nel febbraio 1974. Chi conosce questa storia la mitizza, chi non la conosce ne ignora la portata politica, quasi nessuno sa che continua fino a oggi. La legge che introdusse la possibilità per i lavoratori di formarsi attraverso percorsi di studio di 150 ore pagati dall’azienda più 150 ore di studio autonomo è ancora oggi, non solo per la mia storia famigliare, il modello di un tempo lontano in cui le politiche per l’istruzione e quelle sindacali convergevano e costituivano il cuore delle lotte dei lavoratori e del progresso democratico.
Le 150 ore sono state un fenomeno epocale. Il protagonismo sindacale della prima metà degli anni Settanta in Italia è oggi inimmaginabile. È del 1970 lo Statuto dei diritti dei lavoratori spesso celebrato come pietra miliare della storia repubblicana italiana, ma determinato soprattutto dall’azione unitaria dei tre sindacati confederali, CGIL, CISL e UIL: sulla spinta delle federazioni di operai metalmeccanici, per tutti gli anni Settanta e oltre (fino al referendum sulla scala mobile, 1985) le tre sigle agirono come una sola, la FLM, diventando anche un modello per il sindacalismo europeo. Nelle foto ci sono stanze fumose e affollate, con Bruno Trentin, Giorgio Benvenuto, Pierre Carniti, con giacche eleganti, occhiaie, sigarette consumate: l’immagine più vicina agli stessi ricordi che conservo di mio padre. Dobbiamo immaginare una gigantesca mobilitazione permanente: assemblee, scioperi, proteste accompagnano i cinque mesi di trattativa per il contratto nazionale dei metalmeccanici, firmato il 19 aprile 1973, dopo una manifestazione con 250mila persone a Roma. Nelle immagini d’archivio si legge sui cartelli, si sente urlare negli slogan: “Diritto allo studio!”. Nel contratto viene previsto un inquadramento unico per operai e impiegati: una norma che mina uno dei capisaldi dell’ideologia della fabbrica, la divisione gerarchica tra lavoro intellettuale e lavoro manuale.
È con lo stesso spirito egualitario che viene introdotto il progetto delle 150 ore. Negli anni immediatamente successivi ne usufruiranno milioni di persone: nel primo anno prenderanno la licenza media inferiore in 250mila, con una media che si manterrà oltre i 50mila l’anno fino a buona parte degli anni Ottanta. Le rivendicazioni giovanili («L’immaginazione al potere», «Studiate, avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza») si legano ai bisogni delle generazioni precedenti che non soltanto non avevano avuto istruzione (come i miei nonni), ma che molto spesso non avevano elaborato nemmeno il desiderio di istruzione.
Vasta e ormai lontana, quella delle 150 ore sembra una storia così complessa ed epica che è difficile trovarne un unico simbolo. Spesso però viene evocato l’episodio del clavicembalo (lo fanno anche un recente libro della storica Monica Dati e un altro di Francesco Lauria). In una fase di stanca della trattativa – per “tenere il tavolo”, come si diceva allora, ossia per proseguire a oltranza – i segretari dei sindacati si facevano sostituire. Lo scontro era al suo apice quando a Franco Bentivogli toccò illustrare la richiesta sindacale delle 150 ore; lui (lo racconta in diverse occasioni) ribadì la richiesta di diritto allo studio in senso ampio e non limitato alla formazione professionale, che invece era l’opzione contemplata dalla controparte. Walter Mandelli, segretario di Federmeccanica, a quel punto sbottò: «Signor Bentivogli, secondo lei un operaio con le 150 ore potrebbe imparare a suonare il clavicembalo?». Bentivogli gli rispose con lo stesso tono: «Cavalier Mandelli, sì!». Lo stesso scambio teatrale si ripeté con i segretari generali e viene immortalato nel racconto della contrattazione nel numero speciale che le riviste Inchiesta e Fabbrica e Stato pubblicarono insieme qualche settimana dopo, con in copertina proprio un clavicembalo e il titolo «Suonata per i padroni».